Un pianoforte ed un genio della musica, nato per comporre e suonare. Già in tenera età era artisticamente superiore a chiunque, ma questo dono della natura aveva il risvolto della medaglia, una dannazione: non poter ricevere amore. Il fulcro della storia di questo spettacolo è proprio qui. La sua musica, seppur allegra e dinamica, nasconde insoddisfazione e sofferenza. Forse è anche il mezzo con cui il genio reprime il suo stato d’animo per fuggire al vuoto interiore.
L’unica consolazione per questo ragazzo che muore a 36 anni di nefrite, è la sua grande musica, quella che l’ha accompagnato per tutta la vita fin dalla nascita e che ora lo porta per mano verso la morte, verso l’ultimo concerto, suo ultimo capitolo, il testamento di cui ci rende partecipi.
L’Amadeus di Picchiotti si rivela a noi portandoci in un viaggio attraverso la profonda amarezza che lo pervade e lo soffoca, e di cui vuole liberarsi.
Il monologo è diretto da un grande Claudio Boccaccini e la scenografia si serve di pochi elementi: due quadri sospesi nel vuoto e sbilenchi ma paralleli tra loro come a rappresentare due realtà vicine e al contempo distanti, instabili, precarie come la figura dell’artista che ci si muove in mezzo sfiorandoli senza mai toccarli né sconfinare. L’unica stabilità è rappresentata da una sedia dell’epoca, di quelle imbottite, posta al centro della scena e su cui spesso Paciullo, in abiti d’epoca e con l’immancabile parrucca settecentesca, impersona mirabilmente un Amadeus che svela sé stesso attraverso un accorato sfogo di non detti e di rospi ingoiati, palesando la sofferenza e il disgusto per la corte che lo circonda.